Sibilla - Collana Poesia

martedì 12 giugno 2012

Il libro di Andrea Venzi

"Lune doppie"

Edito nella Collana "Sibilla"

diretta da Cinzia Demi

per la Casa Editrice Pendragon

ottiene un prestigioso riconoscimento

Primo posto

al Premio Internazionale Casentino

Sezione Giuseppe Frunzi

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Dalla prefazione di Cinzia Demi. Lune doppie. La sublime angoscia di Andrea Venzi

“ Tutto ciò che in qualche modo è
adatto a stimolare idee di dolore e pericolo, vale a dire tutto ciò che in
qualche modo è terribile o ha a che fare con argomenti terribili oppure
funziona in modo analogo al terrore, è una fonte del sublime; produce cioè la
più forte emozione che la mente è capace di sentire.” Così si potrebbe iniziare
a parlare della poesia di Andrea Venzi, con questa citazione presa dal trattato
di Edmund Burke, dove per la prima volta si parla del rapporto tra il sublime e
il terrore, gettando basi pseudo-scientifiche sull’irrazionalità del gotico, in
una dimensione dove la paura allontana dalla ragione e dal controllo dei
sentimenti, e scatena nell’immaginazione profonde inquietudini legate al
mistero e ai pericoli della natura: “il terrore riempie la mente di idee
grandiose e fa ripiegare l’anima su se stessa”.
Già dalla prima lettura, infatti,
si percepisce nei suoni, nei toni cupi delle parole e nelle immagini proposte
da Venzi un senso di angosciosa ricerca di elementi che, attraverso il terrore,
possano accostarsi maggiormente al sublime in un poetica ripiegata sulla sua
stessa poesia ma, in uguale maniera, di elementi che possano rimandare anche ad
una concezione di profonda sacralità, vuoi mitologica, rituale o, addirittura,
antropologica dell’uomo. Ecco, allora come L’elemento del buio
(pag. ) - titolo del testo che apre la
raccolta poetica - diventa fondamentale per creare lo scenario su cui muoversi,
uno scenario dove nell’ oscurità: nebbia, squallore, un battito d’ala di un
predatore, uno sciame di bianche figure e rigidi spettri, il cielo incupito di
una notte perpetua… contribuiscono a formare anche il luogo della mente da
cui si deve provare a interrogarsi, da cui si può lanciare il grido sommesso: so
di non essere solo. A cosa allude il poeta con questa frase? Potremmo
chiedercelo. Alle presenze inquietanti che in modo allucinatorio immagina la
sua mente, a qualcuno di reale che sta al suo fianco in quel momento, a
qualcuno o qualcosa che in modo spirituale egli spera (comunque) lo assista,
gli porga aiuto per superare la paura che egli stesso ha voluto creare in
quella scena? Difficile a dirsi specie per un autore che si definisce non
credente ma in cui, ad un attento lettore, non sfugge (ma forse è solo
un’illusione) l’attenzione particolare riposta in quella povera lanterna
con la quale il poeta cammina oltre la Terra dove tramonta il sole (L’altare,
pag. ) aggrappandosi a quella fioca luce - forse un lumino votivo, forse un
barlume di religiosità, che sembra coinvolgerlo, anche senza volerlo - che
diventa metafora di speranza laddove la luce è morta in una notte
infinita e senza scampo; cammino intrapreso dopo aver sostato presso un altare
dove le offerte sono all’ombra della luna - altro elemento costante
nei testi di Venzi, che compare doppio nel titolo della raccolta stessa
- dove un “omerico” celebrante cieco tra preghiere e note
compare tra stendardi che fasciano totem privi di sembianze e corpi che dondolano
sull’acqua in attesa d’affondare. Quale rituale si nasconde in questi
versi? Se parlasse Frazer ci direbbe di come ancora una volta si ricerchi nella mitologia degli antichi, i riti dei
primitivi e le credenze dei moderni quel filo che unisce il passato e il futuro
dell'uomo; se parlasse Freud ci direbbe di come il totem incarni
privazioni e potere, sensi di colpa e smarrimenti, bisogni di iconografie
adorative e nasconda patricidi nati nella notte dei tempi per conquistare spazi
di vita. Una ritualità che si veste di mito e sorge dalle acque di una scienza
antropologica alimentando ricerche per
tentare di scoprire, ora come sempre, i segreti dell’esistenza, i
misteri della vita e dell’uomo, per svelare ciò che ha dato origine al tutto e
se se ciò che siamo corrisponde a ciò che eravamo. Quale strumento migliore
della poesia per questo? Anch’essa alla base della vita dell’uomo che proprio
da sempre la usa, la compone con le parole, con il loro legame musaico -
per dirla con Dante - legame realizzato allo stesso modo oggi come ieri, e per questo fondato attraverso la lingua su
radici antropologiche.
Ma Venzi va oltre e le sue lanterne diventano di pietra nelle ore di neve per frugare le tue cerimonie, nel segreto di
alberi morti, evocando un affannoso respiro accanto al camino (Le
tue infiorescenze, pag. ) come ad esprimere una sensazione di estrema
inutilità provata dall'uomo trovandosi a dover vivere in un mondo sterile, dove
nulla ha più significato, espressione mutuata certo da una lunga meditazione
sull’opera di Elliot , autore che non
manca nemmeno di rievocare, a sua volta, quei riti che, nel contesto di
un mondo contemporaneo, risultano marcati da sterilità spirituale. Venzi va
oltre anche esplorando i terreni dell’Ade (Poesia numero venticinque,
pag. ) dove l’anima s’incolla al ghiaccio, s’imbatte in mostri
fangosi, sotto una pioggia di piombo e un vento senza
tregua, s’inoltra nella palude … e incontra il solo luogo, quello
del silenzio, dove sono possibili le sublimazioni dolorose dov’è
possibile, forse, fare poesia, scrivere versi - aggiungiamo noi - perché se la
realtà è fatta dagli altri e i rapporti
tra l'io e l'altro, cioè i rapporti tra le coscienze, sono nella loro essenza,
conflittuali, e Sartre può senza troppa ironia affermare che “…l'inferno
sono gli altri” ,Venzi allo stesso modo decide di dare corpo alle immagini
costruendo una sua realtà piena d’angoscia infinita, di difficoltà e
magnificenza, di cui può essere certo della sua inesistenza - se pur tuttavia
in letteratura ogni immaginario è reale - e decide di affrontare questo stato
di cose in un fantomatico viaggio.
Così, il viaggio del poeta
procede poi - reale o immaginario che sia, del corpo o della mente (ma anche di un lungo viaggio in Canada, rende
conto il libro) - portando ancora una volta un Ulisse dalle sue sirene,
un Jim Hawkins nella sua isola del tesoro, un Capitano Nemo
nella sua isola misteriosa, dando un ulteriore contributo al mistero,
alla paura, all’angoscia: attribuendogli quel fascino letterario e poetico in
un ruolo degno di nota, e in un intento significativo per lo scrittore, che può
usarli come armi per aggirare i dettami della ragione: Sull’acqua color
piombo ed il rollio/ della nave. Sognavo tesori da strappare/ai mostri degli
abissi…Sono rimaste/ le sirene che appaiono in sogno avanti/ la
partenza…Sbarcherò tra qualche ora/nell’ultima landa di pescatori priva/di
mostri che nascondono tesori… (Sono
rimaste le sirene, pag. )
Il viaggio sembra concludersi -
almeno in questa sua parte, e almeno vogliamo pensarlo - nella ricostruzione di un io frantumato
dalle fantasie sfrenate, nel buio doloroso e nel quadro
umiliato che riporta Venzi - con un improvviso slancio d’apertura verso il
suo lettore ideale - all’originario
rapporto con la madre (Agnese, pag. ) a cui deve tali fantasie, che
comunque lo conduceva per mano e a cui chiede assistenza e approvazione
- anche se non è più fra i vivi - come quando gli porse un bicchier d’acqua.
A quella madre - anch’essa forse più ideale che vera, e forse senza nemmeno
accorgersene - dunque, e alle sue letture, egli si rivolge: Immergersi/nella
polvere dei libri come/nel grembo d’una madre… (Cinque stelle, pag.
) magari perché insieme gli diano un po’ di pace, plachino l’angoscia, lo
cullino nel sonno come l’ immagine di quel sito idilliaco dove ha desiderato/
una morbida vecchiaia di chiacchiere/ e caffè, di musica e velluti, là a Dalvay
by the Sea, un pomeriggio di quel viaggio… (Brackley, pag. ).

"Un uomo ridicolo" - Poesie di Sivano Notari a cura di Cinzia Demi

"La poetica di Silvano Notari trova la propria collocazione in una dimensione dove il rapporto tra la psiche e la visione onirica diventa essenziale. Nelle varie campiture del libro è possibile ritrovare il tentativo, sempre e comunque presente, di realizzare un collegamento con la realtà dove il trait d'union si rapporti con la poesia, passi dalla voce del poeta che, insistentemente, cerca un modo per dare un'immagine stabile di sé. Ecco allora che l'ingranaggio narrativo dei versi, il movente stesso della scrittura, confluiscono in quell'atteggiamento analitico, quasi diagnostico dell'autore che vuole spiegare, attraverso l'inconsistenza della verità, una distanza dal reale e provare a colmarla.La scrittura di Notari si può configurare come una sorta di operazione riparativa dove il poeta è in grado di ricostruire, con una riattivazione di memoria, le proprie dinamiche personali nei confronti dell'amore, dei propri sogni, del proprio rapportarsi con il mondo che lo circonda e soprattutto, di ripensare all'importanza che assume per lui il suo stesso compito di poeta." Dalla presentazione di Cinzia Demi,

Amleto Tarroni - Poesie - Presentazione di Cinzia Demi

"La poesia di Amleto Tarroni: un Canzoniere dalla voce tonante ... La voce poetica di Tarroni è una voce di quelle destinate a restare nel tempo, soprattutto per l'unicità di stile linguistico, davvero introvabile nel panorama attuale della poesa contemporanea(...) è un enorme lavoro artigianale, di scavo e di ricerca sulla parola: sintagmi, lessico, stile, figure retoriche, tutto contribuisce alla ricchezza e profondità del testo, che impegna il fruitore in una continua e attenta rilettura, nel tentativo di penetrare il pensiero del poeta e di orientarsi tra i versi che, in apparenza sembrano schivare ogni regola sintattica, mentre propongono un ulteriore artificio stilistico" (dalla presentazione)